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Questo articolo è stato pubblicato il 31 agosto 2012 alle ore 08:11.
L'ultima modifica è del 31 agosto 2012 alle ore 08:26.

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Sarà settembre il mese cruciale per i destini dell'euro? Gli occhi sono puntati su due date cruciali: la riunione del Consiglio direttivo della Bce, il 6 e la sentenza della suprema Corte tedesca il 12. In mezzo però c'è un altro appuntamento importante: il giorno 11, la Commissione europea presenterà la sua proposta per trasferire alla Bce i poteri di vigilanza sulle banche appartenenti all'area dell'euro, secondo le linee-guida preannunciate ieri dal Commissario Barnier.

Si tratta di una svolta importante, ma anche tardiva. Non solo perché solo dallo scorso mese di maggio i summit europei hanno riconosciuto l'importanza di procedere verso l'unione bancaria, di cui la supervisione integrata è il passo principale. Ma soprattutto perché era chiaro fin dall'inizio che l'euro nasceva privo di un meccanismo accentrato di gestione delle crisi finanziarie; si è preferito andare avanti ugualmente per non interrogarsi sulla possibilità di affidare compiti di vigilanza alla Bce, dunque per non infrangere uno dei tabù dell'ortodossia tedesca.

Quella casella vuota dell'unione monetaria è costata molto cara. Le autorità di vigilanza nazionali hanno dimostrato di interpretare in modo molto lasco il concetto di «sana e prudente gestione delle banche» scritto nel bronzo delle leggi bancarie di tutti i paesi e nei principi di Basilea. Hanno tollerato modelli di business estremamente rischiosi o basati sull'idea che il mondo finanziario sia una specie di paese dei balocchi, dove la liquidità sgorga spontanea e gratuita dalle fontane (si vedano le banche britanniche) o dove i boom edilizi possono protrarsi all'infinito (è il caso irlandese e spagnolo) o dove i titoli strutturati sono sicuri, ancorché frutto di complesse e oscure operazioni, solo perché benedette da un alto rating (è il caso tedesco).

E non basta, perché un altro punto debole dell'Europa di fronte alla crisi finanziaria è stata la minor dotazione di capitale, dovuta in gran parte al fatto che anche su questo punto molte autorità di vigilanza sono state di manica larga e hanno consentito che fossero inclusi titoli che di fatto erano molto più vicini al debito che al patrimonio, sia pure nel cosiddetto Tier-2, cioè nella categoria meno nobile. In alcuni casi - il più clamoroso è quello spagnolo - questi strumenti ibridi sono stati offerti anche ai risparmiatori privati nel tentativo (fallito) di salvataggio delle casse di risparmio. In altri casi, le banche hanno ricevuto capitale dallo stato, quindi dai contribuenti e contemporaneamente hanno continuato a versare interessi ai portatori di questi titoli, che evidentemente non avevano la caratteristica fondamentale del patrimonio, che è quella di essere il primo ad assorbire le perdite.

In un recente discorso, Andrea Enria, presidente della neonata European Banking Authority ha definito questa varietà di comportamenti come «una delle maggiori lacune alla base della crisi finanziaria». E ha aggiunto un punto importante: le banche hanno usato l'innovazione finanziaria per mettere le autorità di vigilanza una contro l'altra, adducendo che i loro concorrenti ottenevano vantaggi competitivi ogni volta che un nuovo strumento più favorevole veniva incluso fra quelli ammessi nella ristretta cerchia degli strumenti utilizzabili per i requisiti di Basilea. E a questo si aggiunge altrettanto lassismo nel calcolare l'altra variabile fondamentale: quella delle attività ponderate per il rischio. Non a caso Ignazio Visco nelle sue Considerazioni finali di maggio ha evocato una misteriosa differenza fra i primi cinque gruppi bancari italiani e la media europea (ovviamente a nostro sfavore) attribuita anche alla «eterogeneità nelle pratiche di supervisione» e ha invocato per il futuro «prassi intense e rigorose».

Tutto questo dimostra che l'integrazione delle funzioni di supervisione era necessaria, ma aiuta anche a capire che gli ostacoli da superare sono molti e ardui. Il primo problema, fondamentale, è che avendo troppo aspettato, finiremo per avere non uno, ma due livelli di supervisione bancaria: la neonata Eba per l'intera Unione europea e la Bce per i 17 paesi dell'area dell'euro. È una scelta quasi obbligata, vista la specificità della crisi attuale dell'euro, che - per i motivi già discussi su queste colonne - sconsiglia di spostare a Francoforte solo i poteri per le grandi banche sistematicamente rilevanti. Comunque, non si tratterà di una convivenza facile e richiederà un coordinamento ferreo per evitare che i vantaggi competitivi si spostino a Londra o altrove. Il compito di redigere il Single rule book, cioè istruzioni di vigilanza omogenee, su cui l'Eba sta oggi lavorando, deve essere confermato e anzi accelerato.

Vi è poi un problema che è in apparenza organizzativo, ma che ha delicate implicazioni politiche. La vigilanza richiede molti funzionari altamente qualificati che lavorano in periferia, cioè nei singoli paesi dell'unione, ma soprattutto al centro. Ci sarà quindi bisogno di un massiccio trasferimento di risorse (più consistente di quello richiesto dalla conduzione della politica monetaria) e fatalmente le decisioni cruciali saranno prese a Francoforte. Basta pensare all'esperienza storica della Banca d'Italia per capire come la vigilanza, ancorché decentrata sul territorio per ovvie esigenze logistiche, richieda che le decisioni strategiche fondamentali siano prese al centro e che alla periferia sia riservata solo l'esecuzione materiale. Nel caso dei nuovi poteri della Bce, l'esigenza di armonizzazione dei criteri di vigilanza e di superamento di tanti lassismi nazionali non farà che accentuare la naturale tendenza all'accentramento del potere e proprio di quello che è stato usato per proteggere interessi nazionali.

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