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Questo articolo è stato pubblicato il 05 agosto 2013 alle ore 06:48.
PAGINA A CURA DI
Stefano Rossi
Definire il confine tra lavoro subordinato e lavoro autonomo è uno dei compiti che sempre più spesso ha impegnato la giurisprudenza, negli ultimi anni, come conseguenza di un contenzioso in aumento su questa materia. Soprattutto nell'attuale scenario economico, infatti, è frequente che i controlli su forme flessibili di impiego portino a individuare rapporti che – sotto la forma del lavoro autonomo, apparentemente indipendente – sono in realtà di natura subordinata.
Il lavoro subordinato è stato riconosciuto dalla legge 92/2012, salvo radicali cambiamenti, come la forma comune dei rapporti di lavoro. Il lavoro autonomo, peraltro, risulta imbrigliato nei numerosi e – talvolta – inconcludenti limiti al suo utilizzo (si veda anche l'articolo al piede della pagina).
L'elemento distintivo
Il principio di diritto che emerge dalle numerose sentenze sul tema è che l'elemento che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato rispetto al lavoro autonomo, assumendo la funzione di parametro normativo di individuazione della natura subordinata del rapporto, è l'assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia e inserimento nell'organizzazione aziendale.
Quindi, come si legge nella sentenza della Cassazione 1569 del 2 gennaio 2013, altri elementi, come l'assenza di rischio, la continuità della prestazione, l'osservanza di un orario e la forma della retribuzione assumono natura meramente sussidiaria e non decisiva. Il caso trattato in questa sentenza riguardava il riconoscimento di un lavoro subordinato tra un'istruttrice di ginnastica aerobica e una associazione sportiva. In particolare, la Corte ha accolto il ricorso dell'associazione, poiché il giudice del merito aveva valutato unicamente l'inserimento organico della lavoratrice nell'organizzazione aziendale, omettendo valutazioni sull'esercizio dell'effettivo potere direttivo e disciplinare.
Nel caso affrontato dalla Cassazione con la sentenza n. 2931/2013, invece, la Corte territoriale, accogliendo il ricorso del lavoratore, afferma che la qualificazione della collaborazione coordinata e continuativa si può desumere da una serie di elementi: la redazione dell'inventario, la consegna dei libri contabili, la delega all'incasso e al prelievo sul conto aziendale, la scelta del sostituto in caso di assenza. La Cassazione ribalta, tuttavia, la pronuncia, sostenendo che l'esame del giudice del merito deve focalizzarsi sull'assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro. Questo assoggettamento, prosegue la Corte, deve essere concretamente apprezzato in relazione alla specificità dell'incarico conferito e al modo della sua attuazione.
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